Il Birrificio Italiano è uno dei birrifici storici del panorama artigianale italiano, fondato da Agostino Arioli, il fratello e altri soci nel lontano (per il giovane movimento italiano) 1996. Tanti altri birrifici, in qualche modo, hanno mosso i primi passi da lì e tanta birra è passata dalle spine del locale di Lurago Marinone da quel 3 aprile di 22 anni fa.
Nel frattempo le birre sono aumentate, cresciute, migliorate, l’impianto cambiato e poi spostato a Limido Comasco, sempre in provincia di Como.
Agostino e il suo B.I. sono universalmente riconosciuti per la grande interpretazione della tradizione birraria tedesca, la Tipo Pils, in un certo senso, ha riscritto i canoni di uno stile ben conosciuto, aggiungendo del luppolo in fase di maturazione a freddo della birra (in Germania si fa solo col mosto, cioè prima della fermentazione).
Rivoluzionario a modo suo, ma comunque molto legato alle regole e al rigore tedesco, Agostino è stato folgorato sulla strada di Reggio Emilia dall’incontro con due enologi del trentino, Andrea Moser e Matteo Marzari, complice Giovanni Mandara della nota pizzeria Piccola Piedigrotta di Reggio.
Da questo incontro è nato un nuovo progetto, oggi chiamato Klanbarrique, un’idea un po’ barbara, di quando la Germania era ancora un’accozzaglia di tribù se vogliamo, perché alle porte di Rovereto (TN) dove ha trovato sede la cantina, non si produce mosto ma si affinano mosti e birre provenienti dal Birrificio Italiano. È un concetto relativamente nuovo, in Italia, ma ben conosciuto e tuttora praticato in Belgio.
Klanbarrique, dopo un paio di anni di lavoro serrato, ha presentato una parte della linea di birre, destinate non solo ai pub o alle case dei clienti, ma anche alla ristorazione.
Parliamo di birre complesse, che ricalcano sensazioni, sapori e profumi più conosciute da chi è avvezzo al vino, ancor di più se si parla di Vini Naturali o Biodinamici. Lontane mille miglia da chi pensa che la birra sia un liquido giallo (a volte rosso), stragasato, di produzione industriale, da bersi rigorosamente ghiacciata. Lontano anche da chi non conosce il mondo dei Lambic e di altre produzioni belghe con evidenti spunti lattici o acetici. Sono birre in cui i Brettanomiceti, lieviti selvatici (ultimamente un po’ domati e isolati in laboratori attrezzati per essere poi riutilizzati) nemici giurati del vino, qui sono fondamentali nel lento lavoro di maturazione delle birre, e sono oramai presenti nell’aria, decidono più o meno loro come dove e quando lavorare. Un sistema molto lontano rispetto al lavoro in un birrificio della Germania: la natura non si piega ai proprio voleri, si asseconda e si cerca di guidarla per quanto possibile.
Le birre presentate nel locale milanese del Birrificio Italiano (Via Ferrante Aporti,12, a due passi dalla stazione Centrale) sono 4, tutte accompagnate da un piatto creato ad hoc dallo chef Vittorio Tarantola (ristorante Tarantola di Appiano Gentile, CO):
La Inclusio Ultima, un metodo classico, amarognola, con intriganti profumi fruttati ed erbacei, abbinata a una zucca gialla al forno, cotechino, scarola, nuvola di patate e lenticchie cips. Birra, grazie alla bollicina sottile, molto facile da bere, ben centrata sul piatto.
La Wildekind è forse quella in cui i Brettanomiceti hanno voce più grossa, è una birra secca, decisa, con amaro evidente e una bella complessità olfattiva (fruttato, erbaceo, ma anche note più selvatiche comunque ben integrate nel bouquet). Il piatto, un risotto alla Wildekind con blu di Moncenisio ed essenza di barbabietola, si è sposato alla perfezione. Birra e piatto si sono trovati non solo in un abbinamento tecnico ben riuscito, ma un abbinamento per affinità, che ha creato, una volta assaggiato il piatto e poi la birra, nuove sensazioni, nuove emozioni.
La Padosè non è del tutto una novità per chi conosce un po’ il Birrificio Italiano: è l’erede o forse meglio dire la continuazione della Cassissona, birra con aggiunta di ribes nero (cassis). Qui nella sua nuova veste, rivisitata verso il mondo degli spumanti: bollicina fine, elegante e sempre presente, a spingere ed esaltare i sentori del ribes. Molto facile da bere per chiunque, a patto che apprezzi bollicine e ribes. Il piatto scelto da Tarantola è stato un cervo al pepe nero, salsa di mirtilli e cipolla arrosto. Anche qui abbinamento preciso, forse meno emozionante del precedente, ma ben centrato.
A concludere ecco la Moonshare, birra calda e avvolgente, evoluzione del Barley Wine del Birrificio Italiano dopo lungo affinamento in botti che avevano prima contenuto la grappa Riserva 18 Lune Marzadro. Il corpo pieno, morbido della birra unito alle note alcoliche della grappa, portano nel mondo dei liquori da meditazione, ma Vittorio Tarantola ha trovato l’abbinamento con un dolce a base di mela caramellata alle noci, gelato al formaggio fresco di capra e una fetta del Panettone della pasticceria Tarantola. Gran finale di serata, col gelato a smorzare il calore della birra, la mela ad accompagnare e il panettone ad aggiungere un non so che di famigliare al tutto.
In conclusione è parso evidente che le 4 birre possano stare in ristorazione, anche con piatti meno ricercati e complessi rispetto alle fantastiche creazioni di Vittorio Tarantola – al tempo stesso sconsiglierei però di provarle con una pizza margherita – con la stessa dignità di un vino.
Perché le birre a tavola ci possono stare eccome, e possono anche osare più facilmente su piatti e ingredienti che per il vino sono irraggiungibili. Certamente occorre spendere due parole in più per raccontarle prima di proporle al cliente finale, se non è già avvezzo, ma se lo chef ci crede, come ha dimostrato questo incontro, la serata prenderà una bella svolta, emozionante e intrigante.
Foto: Maurizio Tosi
Articolo di: Andrea Camaschella