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All’epoca Claude abitava in un paesino vicino a Monthey, nella Svizzera francese. Viveva in uno chalet con orto, affacciato su una valle verde, aperta, e luminosa; guardando i monti dell’altro lato della valle, lo sguardo si perdeva in una macchia boschiva che di autunno assumeva i colori più incredibili, dal verde al rosso, dal marrone a giallo, con decine di sfumature cromatiche. La primavera era un bosco verdeggiante mentre l’inverno era spesso coperto da uno strato di neve. Guardando la valle era piacevole disegnare le forme dei monti per poi confondere lo sguardo nel cielo azzurro, nutrendosi di quell’aria incontaminata che profumava ogni periodo dell’anno in modo diverso. Mi ricordo di un giorno di tardo autunno o forse d’inverno che vi passai un fine settimana; eravamo in quattro, oltre Claude c’erano Chiara e Nicole.

La mattina successiva al mio arrivo, andai con Claude a Losanna. Gruppi di ragazzini correvano lungo i vicoli in discesa ridendo e scherzando; uomini nei bar bevevano birra, caffè oppure vino in minuscoli bicchieri di vetro decorato. Andammo prima in un negozio dove acquistammo mezza forma di un formaggio che per consistenza poteva essere a metà strada tra la Fontina valdostana e il Gruyère , ma meno stagionato. Poi acquistammo in una piccola enoteca, due bottiglie di un vino bianco del Vaud, la regione a nord del lago di Ginevra, e precisamente della Cote. Si trattava di due bianchi piacevolmente profumati che assaggiammo in enoteca nei caratteristici verre locali.

Quella sera il piatto forte sarebbe stata la raclette, da racletter, raschiare. Si tratta, come è noto, di una specialità che consiste nell’ esporre il formaggio a una fonte di calore e quando questa comincia a fondere, si raschia con una spatola facendo colare il formaggio nel piatto. Nei ristoranti le mezze forme sono disposte su culle metalliche dotate di una resistenza elettrica che fonde la superficie della parte tagliata. Ma nelle case la raclette si prepara in modo diverso, ossia al camino; questo deve essere acceso da tempo in modo che disponga di ricca brace. Si pone la mezza forma sdraiata su un’asse coprendo eventualmente la parte di questa esposta al calore con film di alluminio, o con cartone inumidito con la parte tagliata della forma ovviamente rivolta verso la fiamma; appena il formaggio comincia a fondere si procede a recuperare la parte fondente in un piatto aiutandosi con una spatola. Accompagnano la raclette patate bollite, cornichon, ossia cetriolini, ma del tipo gewurzgurken, aromatizzati all’aneto, e pepe nero a volontà. Il vin blanc de la Cote colorava i nostri bicchieri di tonalità paglierine con riflessi verdi. Fu una cena tranquilla in cui divorammo una quantità incredibile di formaggio e non risparmiammo neppure un goccio di vino. La raclette è un piatto che piace e che non richiede, da parte di chi lo prepara, alcuna dote culinaria, se non saper far bollire le patate. È un piatto svizzero originario del Valais, la regione che si sviluppa a est del lago. Rispetto alle origini, con tutta probabilità risale al Medio Evo, ed era preparata dai pastori in estate quando conducevano le greggi all’alpeggio. Nel pascolo accendevano un fuoco, e successivamente vi disponevano di fronte mezza forma di formaggio lasciandola gradatamente fondere. All’epoca il formaggio così preparato era denominato fromage rôti, e solo in un secondo periodo fu adottato il nome raclette. A partire dal Novecento gli apparecchi elettrici cominciarono a sostituire il fuoco, anche se così preparata , la raclette mancava di quella “poesia” che si avverte solo vedendo dialogare la brace del camino con il formaggio. Di fatto per preparare la raclette uso un apparecchio elettrico che consiste in una base riscaldata da resistenze elettriche in cui si inseriscono appositi cassettini metallici dentro i quali si mette il formaggio affettato (d’importazione c’è un formaggio Raclette preafettato nella misura adatta a questi apparecchi). È sicuramente pratico perché permette di evitare di acquistare la mezza forma in quanto è sufficiente una poderosa fetta opportunamente tagliata. Non riprodurrà il fascino del camino, ma quando la preparo trovo solo consensi. E poi… nelle famiglie svizzere, che sono le depositarie, si prepara soprattutto in questo modo. In merito al formaggio denominato Raclette, questo tradizionalmente è di latte vaccino a pasta pressata cruda, piuttosto grasso affinato almeno due mesi. Attualmente il formaggio è stato riconosciuto dell’AOC, denominazione che stabilisce la zona di produzione comprendendo anche zone al di fuori della Svizzera, ma il Valais vorrebbe ricondurre l’area a quella storica.
Alcune avvertenze: mentre si degusta il piatto, le patate devono essere rigorosamente calde e pertanto vanno servite solo quanto bastano per ogni portata di raclette in modo che non abbiano tempo di raffreddarsi. Le dosi? A parte la sera da Claude, occasione in cui esagerammo, in genere si calcolano 200 g di formaggio a testa. E non è poco.
Il formaggio Raclette ha forma rotonda, anche se non mancano produzioni quadrate, con diametro che va da 30 a 35 centimetri. E altezza di 6-8 centimetri. Il peso di una forma è compreso tra 4,8 e 6,5 chilogrammi. Possiede crosta ambrata, rossastra che può tendere al bruno; la pasta va dal giallo paglierino al giallo chiaro con occhiature assenti o sporadiche; il profumo è tipico di latteria, e il sapore delicato. Di per sé non è un formaggio tra i più pregiati, ma mi piacciono le circostanze che crea. Più in generale per scrivere compiutamente di formaggi, occorrerebbe lo spazio di un intero libro. Qui pertanto cito solo quelli che mi hanno dato particolari emozioni, o quelli che reputo quantomeno insoliti, curiosi.
Oltre al Raclette formaggi che mi danno forti emozioni sono i bleu. Mi ricordo, in Francia, un negozio di formaggi vicino a Nîmes. Il repertorio in esposizione era a dir poco ampio; formaggelle di tutte le forme e colori sembravano aspettare il momento per poter sfilare così da formare un corteo più che varigato: cubi, parallelepipedi, piramidi, lunghi cilindri straiati, sfere leggermente schiacciate ai poli, cupole, troncoconi, piccole caciotte, per non dire dei colori, talvolta coperti da foglie, da carbone, da erbe aromatiche oppure dotati di crosta gialla, bianca, ocra, avorio, rossa, marrone, mentre al taglio la pasta mostrava tutte le tonalità che dal banco vanno al giallo, con possibili erborinature che dal verde vanno al blu. E sono i formaggi erborinati che mi colpirono per varietà. Al Roquefort che conoscevo si affiancavano altri formaggi il Forme d’Ambert, i bleu d’Auverne, des Causses, de Gex, de Sassenage de Termignon, il Saint-Agur che differiscono dal Roquefort perché questo è di latte pecorino, mentre questi di latte vaccino, ma per non dire del Bleu de chèvre, ricoperto di carbone, con pasta fondente come un Taleggio cremoso. Ma il Roquefort stesso ha più sfumature così da poter essere diversamente classificato.
Le forme Roquefort commercializzate dalla Sociètè des Caves (reputata società di produttori), riportano la denominazione Cave Abeille, oppure Cave Des Templiers o, ancora, Cave Baragnaudes, che indicano formaggi di sapore rispettivamente equilibrato, forte e delicato.

Roquefort
Nasce nell’omonima cittadina di Roquefort, nel dipartimento dell’Aveyron situato nel Midi francese. Il Roquefort, orgoglio dei produttori, ha una storia antica, e non mancano racconti leggendari. Uno di questi narra di un pastorello, che stava consumando un parco pasto nel fresco di una grotta, quando vide in lontananza una giovane donna. Curioso di vederla più da vicino lasciò il cibo per andarle incontro, e non fu facile perché per quanto camminasse non riusciva ad avvicinarla. Non fu percorso breve perché per quanto camminasse spedito, non riusciva ad avvicinarla. Ma tale era la voglia di vederle il viso, scoprire il colore degli occhi, che continuò imperterrito a seguirla sin quando questa svanì. Ne aveva fatta di strada il pastorella, perché quando tornò nella sua grotta il suo pane di segale si era coperto di muffa e la cagliata di pecora aveva assunto colore marmoreo con venature verde chiaro. Non volle ugualmente buttarla e cibandosene si accorse che la cagliata era divenuta un gustosissimo formaggio. Formaggio conosciuto già nell’antichità, nel Medio Evo Carlo Magno lo considerò tra i suoi preferiti e in alcuni periodi di quell’epoca il Roquefort alcuni contratti vennero stipulati in forme di Roquefort anziché in denari. Nel 1842 nacque, allo scopo di tutelarlo, la Société Civile des Caves Réunies che nel 1881 divenne Société Anonyme des Caves et Producteurs Réunis de Roquefort che è la più rappresentativa associazione di produttori. Il segreto di questo formaggio risiede in quelle grotte dove il pastore della leggenda vide ammuffire cagliata e pane. Infatti i formaggi ancora feschi sono portati in grotte naturali adattate dall’uomo, nel monte Cambelau. Questo rilievo un gigantesco ammassamento roccioso paragonabile a una spugna con tanto di alveoli e ramificazioni, che si sviluppa per due chilometri di lunghezza e 300 metri di larghezza, fu originato dalle grandi trasformazioni terrestri che risalgono a milioni di anni fa, che diedero qui vita al Cambalau. Le grotte sono ben areate, grazie anche a fessure rocciose chiamate fleurine dall’occitano flourir, che significa fiorire, attraverso cui penetra una corrente d’aria fresca di temperatura costante di 8 gradi con un’umidità del 95 per cento. L’ ambiente che si crea, è particolarmente adatto allo sviluppo di una muffa detta Penicillium roqueforti. Le spore di queste muffe sono unite al latte e successivamente “fioriscono” nel formaggio nel corso dell’affinamento nelle grotte, dando luogo alle tipiche occhiature bluastre. Nel 1925 il Roquefort è stato riconosciuto AO (Appellation d’Origine Roquefort). Questa stabilisce che può definirsi Roquefort unicamente il formaggio prodotto utilizzando latte di pecora, e affinato secondo la consuetudine locale, in una zona produzione costituita dal dipartimento di Aveyron e una parte di 4 dipartimenti confinanti. L’affinamento deve essere effettuato nel comune di Roquefort in un’area corrispondente al monte Cambelau. Quando i formaggi giungono sul luogo di affinamento, vengono perforate da 32 aghi montati sopra una tavoletta per facilitare la fuoriuscita dell’anidride carbonica formatasi durante la fermentazione e la formazione delle muffe. Quando queste si saranno formate ciascuna forma è avvolta a mano in un foglio metallico così che la maturazione prosegua lentamente. Dopo meno di 4 mesi il Roquefort è pronto per essere commercializzato. La forma si presenta cilindrica di 18-20 cm di diametro e 12-14 cm di altezza. Pesa circa tre chilogrammi ed è rivestita di carta metallizzata che riporta il nome del produttore. La pasta è omogenea, bianca, grassa, occhiata con venature verdi e blu distribuite uniformemente e un sapore intenso, gradevolmente piccante, penetrante, talvolta pungente. Si esprime al meglio se servito a temperatura di almeno 15 gradi. Il taglio avviene dal cuore verso la crosta. A tale scopo, se in luogo dell’apposita ghigliottina o del filo metallico taglia formaggi si impiegasse un coltello, è preferibile bagnarne la lama in acqua calda per facilitare il taglio. La carta metallica non va tolta perché rallenta la disidratazione del formaggio.

Canestrato di Moliterno

Non è molto noto, però se si assaggia difficilmente si dimentica, perché l’intensità, la pienezza di sapore, la profonda persistenza fanno di questo pecorino un formaggio che non passa inosservato. Il Canestrato di Moliterno è prodotto in Basilicata, nella Valle dell’Agri. L’ho conosciuto in Puglia in due occasioni, vale a dire sia servito come formaggio da tavola, sia utilizzato per condire un piatto di cavatelli alla misticanza. Come formaggio da tavola fu portato dopo una cena connotata da portate di carne. In un borgo dell’entroterra Tarantino verso il confine lucano, cenammo nel retrobottega di una carnizzeria, ossia di una macelleria; pasteggiammo con i tagli di carne che ordinammo al banco, e che il macellaio ci cucinò. Il vino di accompagnamento era un Primitivo di Mandria spesso e forte che bastava berne un sorso per sentirsi già inebriati. Dopo varie carni fu servito su carta oleata un generoso assaggio di un generico pecorino. Per me fu amore a prima vista e mi portò a sorseggiare con maggiore convinzione quel vino corposo e compito; e il formaggio dimostrò di saper tenerne testa. È’ intenso, e nelle produzioni più stagionate, può rivelarsi leggermente piccante. La forma è solcata in superficie, come in genere i formaggi canestrati, ossia raccolti in canestri dove vengono formati premendo la pasta per facilitare la fuoriuscita del siero residuo. La forma potrebbe quindi confondersi con altre prodotte con le stesse modalità, ma assaggiando questo cacio si avverte non solo la forza, ma anche un senso di morbidezza, di rotondità che completa il gusto arricchendolo di note gustative ampie, spesse. Il nome lo mutua dalla località, dalle origini sicuramente antiche, in quanto il toponimo deriva da mulcternum, ossia “luogo della mungitura”, testimoniando così come l’arte casearia qui sia profondamente radicata. Il Moliterno è un formaggio pecorino completato con latte caprino, e fatto coagulare con caglio di capretto, oppure, di agnello. La lavorazione prevede che la cagliata, una volta rotta, sia posta in fascere e qui pressata con le mani. Il formaggio è poi scottato in siero caldo per pochi minuti, quindi salato a secco. Matura in 15 giorni, in ambiente fresco. La stagionatura che segue dura circa 8 mesi, periodo in cui i casari rivoltano le forme e le trattano con olio e aceto. Nel periodo estivo i formaggi sono trasferiti in soffitte calde e asciutte per favorire la formazione della “lacrima” che conferisce maggiore pregio al Moliterno. Alla commercializzazione le forme pesano da uno a otto kg e sono definite da forma cilindrica e crosta dura colore ambrato che vira al rossiccio o al marrone chiaro. La pasta compatta, dotata di rada e fine occhiatura, conserva una consistenza morbida è grassa e possiede colore bianco, grigio o leggermente paglierino. Il sapore è pieno, tendente al piccante.

Pecorino di Farindola

Un formaggio molto apprezzato quanto poco conociuto è il Pecorino di Farindola. L’unicità di questo cacio risiede nella natura del caglio, ossia la sostanza che fa addensare il latte. Infatti questo non è, come solitamente succede , di vitello, agnello o caprino, ma suino. È prodotto in quantità limitatissime in una ristretta area del versante orientale del Gran Sasso, comprendente il comprensorio di Farindola che si estende ai comuni di Montebello di Bertona, Arsita, Bisenti, Villa Celiera e le frazioni Roccafinadamo di Penne e Vestea di Civitella Casanova. La preparazione del caglio suino ha origini molto antiche e ancora oggi è prerogativa esclusiva delle donne, che tramandano la ricetta di generazione in generazione. Il latte viene munto da pecore allevate allo stato brado in pascoli di altitudine elevata. Queste pecore producono un quantitativo di latte molto esiguo. Questo viene riscaldato e addizionato di caglio suino; la massa ottenuta, una volta rotta e sgrondata dal siero, ed è poi posta in fascere di vimini. Le forme sono affinate per almeno 40 giorni fino a più di un anno. La crosta è periodicamente unta con un mix di olio extravergine di oliva e aceto per evitare un eccessivo essiccamento e l’eventuale formazione di muffe che potrebbero danneggiare la qualità del prodotto.

Casizolu

Un altro formaggio da conoscere è il Casizolu che ha per zona di produzione il comprensorio a cavallo fra le province di Oristano e Nuoro. È prodotto con latte vaccino addizionato di caglio di vitello o vegetale. È’ a pasta filata, come la mozzarella , la provola, il caciocavallo e il provolone. Piriforme, stagiona da 30 giorni a 15 mesi e possiede crosta sottile, colore giallo paglierino tendente all’ocra. La pasta è dotata di colore paglierino che talvolta vira al giallo ed è elastica con occhiatura omogenea, tendente a sfogliarsi durante la stagionatura. Odorandola si coglie un profumo vagamente burroso e vegetale; il sapore, dolce di latte, diventa intenso e piccante nelle forme lungamente stagionate.

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