Il Italia si chiamano cappesante e sono internazionalmente conosciute come Coquille Saint-Jacques. Va detto che quelle italiane sono in genere più piccole. La conchiglia è tra le più belle e ha ispirato Botticelli nella sua Venere. Il frutto ha invece ispirato Gualtiero Marchesi che lo ha impiegato per farcire il suo raviolo aperto, forse il piatto più cult della sua cucina. Un buon incontro con questo frutto di mare (che anche a me ispira), è avvenuto a Parigi.
Era un giorno d’inverno, il vento era tagliente, freddo, e di tanto in tanto nevicava, per poi smettere. La Senna scorreva maestosa, e il vento talvolta ne increspava la superficie quando le raffiche sembravano volerla attraversare. Nella Rive Gauche, infilandomi nelle viette che partono da Place Saint Michelle, Mirelle mi stringeva forte il braccio e la sentivo rigida per il freddo. Camminammo ancora per almeno cinque minuti sino ad arrivare in un accogliente e caldo bistrot. Sulla carta non rimasero inosservate le cappesante al gratin.
Era il miglior modo di cominciare la serata, ossia con un piatto caldo e al tempo stesso leggero. Ordinammo una bottiglia di Sancerre. I frutti di mare erano stati preparati con una base di funghi, vino bianco, scalogno e cosparsi di pangrattato. La gratinatura era leggera, e la cottura perfetta. La consistenza era incredibilmente cedevole, e il mollusco comunicava un sapore di piacevole dolcezza che bene armonizzava con le note meno morbide del vino. Il sapore della salsa completava il piatto, senza sovrapporsi e, anzi, valorizzando il gusto della cappesanta. La neve comincio a battere sui vetri, mentre un senso di calma e piacevolezza faceva apprezzare quell’inizio di serata sentendo il senso di confortevolezza che la mia commensale, il cibo, l’ambiente, mi comunicavano. Per anni ho consumato questo eccellente frutto di mare in tutte le salse, ossia con i porri, impanati e fritti, nel raviolo aperto, ma è solo da relativamente poco tempo che sono riuscito a degustarlo crudo. La prima volta fu da Marchesi, nel Ristorante di Erbusco; ero con Andreina; Marchesi ci propose un percorso gastronomico costituito da svariati piatti per permetterci di conoscere le sue creazioni più recenti. Uno di questi comprendeva la cappesanta cruda, e sinceramente non so se sia la consistenza o il sapore a piacermi di più e a farne uno dei miei piatti preferiti. Da quella sera le ho trovate crude sempre con maggiore facilità, anche in qualche ristorante giapponese (un’interpretazione delle cappesante la trovate anche qui).
In un ristorante a Milano mi è stata servita una cappesanta cruda, sgusciata molto grossa, così che feci fatica a riconoscerla in quanto priva della caratteristica lingua rossa, che unita ad altri ingredienti formava un misto crudo tra quelli più convincenti che ho provato. Attualmente le cappesante crude, almeno a Milano, sono di facile reperimento nei ristoranti di pesce specializzati nei crudi e in alcuni ristoranti giapponesi. Ma non di sole cappesante voglio qui scrivere, ma di frutti di mare in generale. Per frutti di mare ontendo unicamente i molluschi lamellibranchi e gasteropodi, ossia quelli provvisti di conchiglia. Quindi: cozze, vongole, cannolicchi, tartufi, cappesante, ostriche (delle quali abbiamo scritto qui), canestrelli, fasolari e altre specie ancora. Si tratta di cibi di gran pregio gastronomico, da gustare preferibilmente crudi. La freschezza è un importante criterio di scelta che condiziona l’acquisto di quasi tutti i prodotti alimentari; nel caso dei frutti di mare assume un’importanza imprescindibile, infatti se questi non fossero vivi andrebbero scartati in quanto tossici.
Le cozze sono i più abbordabili frutti di mare in quanto sono di facile reperimento e i meno costosi. Ottime crude, sono gustose semplicemente scottate e cosparse di pepe, oppure cucinate alla marinara con il pomodoro, o con burro e scalogno, alle erbe fini, al pastis e via elencando oltre che alla griglia. Cucinate in quest’ultimo modo le ho mangiate in Francia. Ero nel Languedoc, in estate. Fui invitato da alcuni amici Parigini che avevano lasciato la città per vivere in campagna: chi produceva formaggi, chi lavorava nel campo della ristrutturazione degli edifici, insomma, erano tutti felici e contenti di aver lasciato la metropoli alle spalle. Forse proprio per non sentirsi in città organizzarono un barbecue in un posto veramente incantevole. Si trattava di una macchia boschiva molto rigogliosa attraversata da un ruscello adamantino. Proprio a fianco del ruscello organizzammo la grigliata e sulle braci finirono anche le cozze. In Francia si distinguono quelle di allevamento con quelle, come dicono, di mare, ossia selvatiche. Si riconoscono perché hanno il guscio più spesso e molto incrostato, ma soprattutto per il frutto che è più sodo o gustoso. Erano queste che aprimmo, sporcammo di senape di Digione, quindi disponemmo sulla griglia. Non vanno cotte troppo a lungo, in quanto devono mantenersi morbide. La senape, che i francesi adorano e mettono dappertutto, vivacizza senza disturbare, il gusto dei molluschi.
Le vongole, invece, intese come veraci, mi hanno conquistato in un ristorante dove preparavano e preparano, spaghetti alle vongole rigorosamente in bianco, utilizzando unicamente aglio, olio e prezzemolo. È’un piatto di semplice esecuzione e per questo motivo non consente errori e richiede ingredienti di prima scelta: se le vongole non sono al meglio, il piatto ha fondamenta cedevoli. L’olio deve essere un tocco, mentre il liquido delle vongole dà corpo alla salsa. Le vongole migliori sono quelle con i sifoni che si divaricano e non quelle con i sifoni paralleli e congiunti. Inportante, come spieghiamo qui, non “spurgare” le vongole prima di cuocerle.
Quando mangiai il mio primo uovo di mare, chiamato anche spugna, tartufo, spuenzo, ero adolescente e mi rimasero impressi l’intensità dell’odore e del sapore. Era un aroma così intenso e penetrante che quasi mi ricordava l’acido fenico, ed è per questo che non li apprezzai. Ma il colore purpureo, la particolare consistenza di questo frutto di mare che protetto da un involucro che sembra un sasso, quando in realtà è tenero e si taglia con il coltello, mi portarono a riprovare, successivamente, l’assaggio. Pian piano l’odore di acido fenico svaniva per lasciare spazio a un’essenza di iodio, ossia di mare concentrato. Sono così diventati tra i miei frutti di mare preferiti, da gustare rigorosamente crudi.
Crudi si mangiano anche i ricci. Ne ho pescati tantissimi calandomi in apnea da scogli o barche. I ricci commestibili hanno colore nero tendente al marrone bruciato; gli spicchi aranciati che si consumano sono le gonadi, e non le uova del riccio (che è ermafrodita).
A Hong Kong ho potuto gustare l’abalone, ossia una varietà che può ricordare, ma in grande e con forma diversa, l’orecchia di mare, ossia un mollusco monovalve che vive attaccato agli scogli.
Lo apprezzata al Forum nella versione essiccata al sole; dalla sala a piano terra, ampia e tipicamente cinese, una rampa di scale porta a un’altra più piccola al primo piano; salendo si arriva alle cucine. Qui lo chef Yeung Koon Yat, rappresentate di Hong Kong del Club des Chefs des chefs, prepara l’abalone stufato: vederlo all’opera è un privilegio raro. La numerosa brigata, composta da cuochi e aiutanti, sembra pullulare nella cucina che si sviluppa in lunghezza, con lingue di vapore che escono impetuose dai recipienti. Se non fosse per i profumi, ricorderebbe la sala macchine di una nave dove i fochisti eseguono disciplinatissimi gli ordini, pronunciati ad alta voce e con tono severo dal capo. Così Yeung Koom Yat, scandendo poche, secche parole, provocava veloci cambi di postazione, quindi, assistito da due cuochi, ha cucinato l’abalone che poi ho potuto assaporare: consistenza poco più soda della testa del fungo porcino, sapore iniziale di bottarga che vira al gusto di riccio. Indimenticabile. Attenzione però, un piatto di abalone può superare 500 dollari.