Pranzi in casa senza prelibatezze, ristoranti con la carta del menù impoverita, supermercati con qualche scaffale vuoto: sarà questo l’impatto della Brexit sullo stile di vita inglese, almeno per quello che riguarda il cibo? Quali le conseguenze per l’industria alimentare targata UK?
A queste domande ha cercato di rispondere il giornalista Jay Rayner in un recente articolo pubblicato su The Observer e ripreso da The Guardian, raccogliendo dati statistici, testimonianze di coltivatori, allevatori, aziende della trasformazione e logistica che operano nella filiera del cibo, senza trascurare le posizioni di ricercatori, accademici e politici britannici.
Lo scenario che ne risulta racconta una grande incertezza e un clima di preoccupazione allarmante, poiché il Regno Unito produce il 49% del fabbisogno nazionale degli alimenti dei quali si nutre: non è quindi autosufficiente, oltre a non avere scorte alimentari.
In sintesi, l’articolo ipotizza che, con la Brexit e l’abbandono della UE, le importazioni di prodotti alimentari da altri paesi europei richiederanno tempi più lunghi e costi maggiori, mentre restano ancora da individuare mercati alternativi per l’approvvigionamento. Un esempio evidente sono le carni: le leggi di alcuni stati permettono pratiche vietate sia da EU che da UK (come il cloro per il lavaggio dei polli, o l’utilizzo di ormoni negli allevamenti bovini degli Stati Uniti).
Le aziende alimentari inglesi a tutt’oggi non sanno prevedere cosa succederà e non hanno fatto investimenti per accrescere la loro capacità produttiva; in risposta al cambiamento, un’impresa della trasformazione ha delocalizzato un terzo delle attività fuori dal paese (che perderà così posti di lavoro e soldi delle tasse). Con l’abbandono delle UE la Gran Bretagna vedrà poi ridursi la disponibilità di forza lavoro proveniente da altri stati europei per campi e stalle, a causa della prevedibile (e tuttora non risolta) difficoltà per ottenere i visti di ingresso. Inevitabile anche in questo caso, un incremento dei costi connessi.
Con una produzione agricola penalizzata dalla geografia, il Regno Unito si è abituato in questi anni a consumare frutta e verdura importata dai paesi EU (come Spagna, Italia, Paesi Bassi o Polonia), prodotti che sulle tavole inglese non apparivano in passato. Escludendo la pasticceria, che cosa vi viene in mente della cucina inglese oltre a fish & chips, porridge, sandwich e whiskey ? Forse nulla. Eppure Londra è diventata negli ultimi anni un crocevia importante per le cucine straniere e i nuovi stili alimentari, a tutti i livelli: dall’alta gastronomia fino a quella pop, complici programmi televisivi di grande successo. Una rivoluzione golosa resa possibile anche dalla tradizione culinaria nazionale che non ha mai primeggiato.
Con la Brexit si metterebbe in atto un cambiamento epocale cominciato oltremanica poche decadi fa, con la scoperta dei sapori delle ex colonie, come è avvenuto nelle curry houses, gli economici ristoranti indiani divenuti popolari in tutto la nazione, tanto da essere ribattezzati British curry houses. Da allora la curiosità per il cibo e le sperimentazioni ai fornelli inglesi, sono diventati una moda che non ha smesso di crescere. Tra queste la cucina italiana è stata un’apripista della primissima ora, grazie a persone come Antonio Carluccio, e ha poi sedotto lo chef inglese Jamie Oliver, al quale si deve una catena di ristoranti dedicati con menu rivisti e corretti secondo il palato locale.
In attesa di vedere cosa accadrà dopo il 29 marzo 2019 e se non interverranno nuovi sviluppi, il Regno Unito ritornerà un po’ al suo splendido isolamento, quello che abbiamo studiato sui libri di scuola. E, forse, farà più fatica a definirsi cool Britannia. Perlomeno a tavola.