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Nonostante fosse marzo il vento era molto freddo e il mare, grigio, diventava in alcuni momenti particolarmente minaccioso. Quel giorno, mi dissero, nessuna barca era uscita dal porticciolo di Saint-Malo. Eppure c’era allegria nell’aria e quando mi fermai davanti al tavolaccio di legno costituito da due rudimentali cavalletti e da un’asse che ricordava una vecchia porta, che reggeva casse e ceste di ostriche, un signore con un cappello di lana calcato sulla testa sino a coprirgli le orecchie, mi tese, con la mano livida per il freddo, un’ostrica vibrante nel mare del suo guscio concavo. Lo guardai, cercai tra le tante conchiglie una fettina di limone, ma il Monsieur sembrò capire le mie intenzioni e, presa una piccola bottiglia tappata con sughero da cui usciva un’esile cannuccia , irrorò l’ostrica. Io la portai diligentemente alla bocca e mi trovai a chiudere gli occhi istintivamente. Fu come sentire in me il mare, io piccolo contenitore capace di accogliere l’infinito. Chiusi gli occhi perché nessun’altra sensazione potesse distrarmi, e addentando il frutto di mare una nuova onda si infranse sui miei molari, quasi fossero scogli. Quando mi ripresi, l’ostricaro mi mostrò il suo sorriso e agitò la bottiglietta, che originariamente doveva essere di un succo di frutta, e solo allora percepii il colore vinoso del contenuto. Sì, era sicuramente aceto. “Oui Monsieur, mais a l’echalote”.
Da allora, quando ho il piacere di fronteggiare un plateau di ostriche adagiate sopra uno strato di ghiaccio tritato e coperto di alghe, non faccio mai mancare una piccola ciotola di aceto di vino rosso con scalogno finemente affettato cui unisco pepe nero macinato al momento con cui condisco, servendomi di un cucchiaino, Belon, Cancale, Zelande, Armorique e le mie amatissime Pousse en Claire e ciò che di meglio posso trovare in quei da me prediletti ristorantini accoglienti ed eleganti che da Saint André des Arts a Saint Germain caratterizzano la rive gauche parigina.

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