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Perché secondo voi in 48 ore a Genova dovrei andare due volte nello stesso posto? Provo a spiegarvelo.

Il tempo è poco, il programma in parte già definito perché non si parte mai senza una meta se hai questa passione dentro. Ma poi è il fuori programma a stravolgerti e conquistarti, tanto che ne vuoi ancora, di sera e di giorno.

Parlando delle possibili esperienze da fare era uscito anche Il Michelaccio, lasciato poi tra gli eventuali. Dopo il pranzo al Marin, che vi racconterò prossimamente, arriva la sera e una camminata sotto le stelle tra i caruggi fa tornare quel pensiero. In un attimo prediamo siamo seduti al banco, con un bicchiere in mano nell’attesa di divertirci a sorpresa.

Bistrot Gastronomico dice l’insegna. Non lasciatevi ingannare. Sarebbe riduttivo fermarsi a questa definizione perché questo locale ( foto 1) è molto di più. Tutto quello che si può desiderare c’è.

L’intenzione era “un paio di piattini”. Non ci credete vero? Giuro che eravamo seri e convinti prima di entrare. Poi però Fabio Fauraz ci ha contagiato con il suo virus. Saranno i piatti d’ispirazione asiatica?

Ora sei a Genova, in ciabatte, a casa o in un’osteria finemente classica, ora ti senti addosso un tacco 12 e con un vestito elegantissimo sei seduta in uno dei ristoranti più esclusivi, ora sei catapultata dall’altra parte del mondo, con le bacchette e un kimono. I piatti si susseguono senza interruzione e in totale libertà. Davvero difficile dare un’interruzione perché gli occhi continuano a puntare dritti alla porta della cucina, sperando arrivi altro. In tutti una grande personalità, leggerezza abbracciata a golosità, raffinatezza, pulizia e grande valorizzazione delle straordinarie materie prime.

Non c’è un ordine e così è anche la carta e la proposta giornaliera scritta con il gesso sulla lavagna. Il piacere diventa puro divertimento, senza formalismi. Goderne. Punto. Ci si dimentica anche delle buone maniere a tavola, non si sa che ore sono, si perde il conto del numero di piatti. Fortuna c’è una memoria fotografica a rimettermi in riga per scriverne. Quindi scorro le foto del telefono insieme a voi.
Panissa fritta. Comfort.

Focaccia di calamari (foto 2). “Volare oh, oh”. Dai qualche scia canora sanremese ci sta tutta. Stelle ne abbiamo? Solo una a Genova. Peccato. Ovviamente non per togliere ma aggiungere merito. L’idea di partenza è la Focaccia di Recco. Rimane il formaggio ma la sfoglia è di calamari, eterea e perfetta. Capolavoro. Sarebbe un peccato cadere dalla sedia ora. In piedi.

Anche perché segue un piatto che ristabilisce la calma dei sensi. Lattughe ripiene (foto 3).

Ma poi ancora su. ”Nel blu dipinto di blu”. Frizza di fegato e cipollotto (foto 4). Traducendo più terra a terra potrei dire una grossa polpetta di fegato avvolta nella rete di maiale, che in cottura si scioglie conferendo alla carne ancora più sapore (non che gli mancasse comunque). Insomma crépinette. Ed ecco il primo tocco orientale con l’umami della salsa e panino al vapore in accompagnamento.

Segue ancora musica classica, per tutti i sensi. Minestrone alla ligure (foto 5). Finito al tavolo/banco con l’aggiunta del pesto nel tegame. Inutile spiegare i profumi sprigionati con la mescolatura, non riuscirei a farveli arrivare. Ma la sorpresa vera è poi all’assaggio. C’è un amido. Non ancora codificato nella mia memoria. Troppo autoctono e raro (mi sa anche per i genovesi), soprattutto perché questa città la sto conoscendo un po’ meglio solo ora. Scucuzun, un’antica pasta da brodo dalla forma sferica il cui nome sembra essere derivato una storpiatura del più picouscous. Memorizzato. Molto bene.

D’obbligo ora una piccola parentesi di grande merito a Fabio. I piatti, intendo proprio l’oggetto fisico, sono tutti caldissimi, anzi attenzione. Mi dicono che è una rarità qui, ma io estenderei anche altrove. L’ABC.

A seguire Ravioli di carne genovesi cotti al vapore all’orientale e salsa di tocco ligure (foto 6). Simil Dim sum per rendere l’idea. Ancora una scossa etnica, senza dimenticare le solide radici.

Segue una sottile provocazione: Bollito misto. Dove sta la provocazione? Nel presentarlo in sfoglie sottilissime, una sopra l’altra (foto 7). Zerarìa è il suo nome, una terrina contadina, servita con foglie di broccoli e senape. Wow. Diviso in due. Mangiato tre quarti. Sono golosa lo so.

The end. Castagnaccio (foto 8). Che finezza. Poco dolce, poco pannoso, piacevolmente e anzi finalmente diverso.

Ci accompagna nel viaggio il Trebbiano di Emidio Pepe (foto 9). Avete così capito la direzione della carta dei vini, come piace a me, ampia sia nella proposta delle zone e dei vitigni sia nella profondità delle annate.

C’è da divertirsi anche con i grandi cocktail classici, distillati e liquori di gran livello. C’è solo da scegliere se miscelarli o berli in purezza. Prima, dopo o durante.

Ora capite perché l’indomani a pranzo lo desideravamo ancora? Abbiamo anche controllato che non facesse le colazioni… non si sa mai..

Brevemente riassumo: insalatina orientale di acquadelle secche e fritte (foto 10), crocchette di baccalà e maionese (foto 11), ramen di trippa alla ligure (foto 12), risotto alla genovese con funghi, (foto 13) comme ‘na votta, guancia brasata al vino rosso e purè di patate, panera (foyto 14). Anche a pranzo le intenzioni erano diverse.

Come non bere un Borgogna con tanta meraviglia? Guillemot – Michel Quintaine 2016 (foto 15). What else?

Superbo è l’aggettivo autoctono perfetto. Resisterò al virus?

 

Articolo di: Michela Brivio

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