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Nel linguaggio corrente, talvolta si utilizzano termini d’effetto, metafore, ossimori, per enfatizzare, fornire una forma a certe parole. Per esempio quando si parla di una strada piena di buche, di una persona o di un’istituzione scialacquatrice, spesso per dare un’immagine di “colabrodo”si fa riferimento al Groviera. Probabilmente vuole essere un nesso “scherzoso”, forse dissacrante, mah.

Ricordiamo un signore minuto e anziano con un loden blu in un negozio di formaggi attento a ordinare del Groviera; mentre il patron della bottega, grasso e grosso, stava tagliandogli una fetta di Emmental, l’anziano precisò che non voleva quel formaggio, bensì quell’altro e lo indicò. Al che il bottegaio, arrogante e con aria di scherno rispose, che quello era Gruyère, non certo Groviera. Aveva ragione il cliente in quanto Groviera non è certo la traduzione di Emmental. La differenza tra i due formaggi è lampante: il Groviera, soprattutto, quando invecchiato, raggiunge intensità e ampiezza di sapore per nulla simili a quelli di Emmental o di Emmentaler, ma soprattutto non ha i buchi (vedi foto): pertanto paragonare il Groviera a una strada dissestata è sbagliato. Ma sin che si utilizza Groviera come sinonimo di Emmental in una discussione informale, senza pretese, possiamo essere tolleranti; molto meno tolleranti quando invece è un giornalista che scrive di economia, anche perché se, riferendoci con lo stesso spirto faceto all’informatica, scrivessimo beat in luogo bit, non saremmo tollerati. Soprattutto in un momento in cui la gastronomia ha un’esposizione mediatica di grande rilievo, certi errori, soprattutto da parte di giornalisti o di conduttori televisivi, sono sempre meno scusabili. La colpa? E’ dei primi importatori che scambiarono i nomi ai formaggi e, ovviamente, del recidivo Topo Gigio che ha diseducato intere generazioni di bambini denominando Groviera il suo formaggio preferito, ossia l’Emmental, quello con i buchi per intenderci.

Sempre rispetto allo straparlare, non dobbiamo prendercela con il ristoratore cinese se ci chiede quale glappa vogliamo tra quelle di bambù e di rose. E’ che in Italia, paese produttore di grappa, non si sa esattamente la grappa che cosa sia. Perché chiamare un distillato, per esempio di frutta, grappa, è un errore. La grappa è un distillato di vinacce, ossia di ciò che rimane dell’uva dopo la vinificazione (bucce, vinaccioli, residui di polpa, talvolta anche graspi); se gli ingredienti non sono vinacce, allora non si tratta di grappa. La glappa di rosa o di bambù non è fatta con le vinacce (ma non diamo la colpa al ristoratore se la chiama così, diamola a chi gli ha fornito la traduzione italiana), esattamente come non utilizzano vinacce i distillati di pere, di prugne, di ciliegie… Esistono grappe aromatizzate alla frutta, ma sono tutt’altra cosa. Sembrerebbe tanto facile, ma quando un distillato non è whisky, cognac, rum, gin vodka, calvados, armaganac… ossia non ha una denominazione precisa, diventa grappa.

Tanto per chiarire. E sarebbe divertente comprendere perché le Vinaigre de cidre, tradotto in italiano diventi Aceto di mele… come dire… chiamare quello di vino Aceto d’uva.

 

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